Racconto breve: Nati per correre
Mark era nato per correre. Lui era dinamite pura, correre lo faceva sentire vivo, lo liberava dai vincoli che la società gli imponeva, lo spingeva verso il futuro. Lui voleva sentirsi libero. La solitudine non lo spaventava, era lo scotto da pagare per lasciarsi andare verso la libertà. Sarebbe stato bello trovare qualcuno come lui: un compagno di viaggio per lasciarsi andare verso l’incertezza delineata dall’orizzonte.
Bruce era un privilegiato: la famiglia da cui era nato era di gran prestigio. Figlio di uno tra i cavalli da corsa più decorati della storia dell’Ippica, i suoi fratellini erano pronti a seguire le orme del padre, per onorare le tradizioni di famiglia dei padroni e continuare a regalare vittorie su vittorie. Bruce no. Lui non era nato per vincere. Era nato per correre, anche lui.
Anche Mark era costretto a vincere. Lui era il figlio di un famoso scacchista, ed era obbligato ad ereditare le volontà del padre: Mark doveva riuscire dove suo padre aveva tristemente fallito. Colpito da un ictus a 37 anni, due anni dopo la nascita del figlioletto, Patrick Carpenter fu costretto ad abbandonare l’attività agonistica, rinunciando ai suoi sogni. Un destino beffardo ed insopportabile. Mark Carpenter doveva raccoglierne l’eredità, e doveva realizzare il suo sogno. Il ragazzo si domandava sempre perché suo padre non avesse desiderato la realizzazione del vero sogno di suo figlio, invece di riversare i propri desideri sulle vite degli altri.
Elvis, nome perfetto per quello che sarebbe stato il “re” dei cavalli, così come Presley fu il “re del rock”. Nella famiglia Bradbury quel genere musicale era d’obbligo: per celebrare le grandi star del rock, alle nuove generazioni venivano attribuiti i nomi delle figure più celebri di quel genere musicale. Tra i tanti, c’era Bruce. Come Springsteen. E proprio come intonava una famosa canzone del “boss”, Bruce era nato per correre.
Mark Carpenter e il puledro Bruce incrociarono i rispettivi sguardi in una semplice mattinata soleggiata, apparentemente uguale a tante altre. E invece no. Quel giorno fu speciale per entrambi. Tra i due nacque una sinergia quasi mistica, un’intesa spontanea. <<Papà, mi fai cavalcare quel pony?>>, implorò il piccolo Mark. Lo stalliere propose diversi cavalli da provare, visto che i puledri non potevano essere cavalcati. <<Io voglio cavalcare QUEL PONY>>, indicando il giovane Bruce con quell’indice tanto minuto quanto deciso ed imperterrito. Bastarono pochi secondi ad entrambi per capire che uno non poteva fare a meno dell’altro. Sembrava che si conoscessero da anni.
Lo scorrere inesorabile del tempo può spesso rappresentare una giusta metafora della vita: bisogna guardare sempre avanti, inesorabilmente, avanzare senza mai arrestarsi. E loro avevano bisogno di guardare avanti. Il tempo passò quindi inesorabile per Mark e Bruce, vittime delle costrizioni, prigionieri di un destino che altri avevano scritto per loro. Quei destini potevano essere cancellati, dovevano essere cancellati.
Ormai in piena crisi adolescenziale, Mark scappò di casa rifugiandosi nelle campagne circostanti, stanco di stare continuamente sotto scacco. La famiglia Bradbury, d’altro canto, puntava tanto sul prestante Bruce, ma dopo qualche gara non proprio convincente il cavallo di punta scomparve nel nulla, stanco di dover correre su quei roventi ferri. Quegli sguardi, a distanza di anni, si incrociarono nuovamente, ma il tempo non aveva cambiato nulla, anzi. Il loro desiderio di libertà s’era ingigantito con il passar degli anni e l’incontro tra destini simili non può far altro che cambiare le loro rispettive storie. Mark avvicinò lentamente la sua guancia sulla testa di Bruce, strofinandola su quella morbida pelle che sembrava quasi un cuscino. Un salto in groppa, e la loro vita poteva cambiare per sempre: non sapevano dove erano diretti, ma erano sicuri di ciò che volevano, e soprattutto, del motivo per cui erano nati. Erano nati per correre.